Aston Martin, la cura italiana funziona

E’ passata alla storia come la macchina di James Bond. Mentre la storica casa automobilistica americana Ford ne ha “rubato” la griglia anteriore per ridisegnare la sua auto di successo: la Fiesta. Parliamo di Aston Martin, storica casa automobilistica britannica nata nel 1913. La quale dal 2012 è passata sotto il controllo di Investindustrial, un fondo di private equity guidato dalla famiglia Bonomi. Una cura italiana che Andrea Bonomi definisce “ricetta Ducati”, dato che quest’ultima casa motociclistica è stata acquistata dal finanziere in stato pre fallimentare e poi venduta ai tedeschi della Audi per 800 milioni.

Aston Martin non solo ha superato in questi mesi i ricavi registrati in tutta la sua storia, ma è pronta a buttarsi a capofitto nel mercato dell’ibrido ed investire altresì in Giappone. Ripercorriamone la lunga storia, partendo proprio dai primi avvenimenti.

Aston Martin, ricavi e vendite record

Aston Martin ha superato quota un miliardo di dollari di ricavi, mai toccati nella sua plurisecolare storia. Di fatti, nel primo semestre di quest’anno i ricavi hanno fatto registrare una crescita del 94%, arrivando a 410,4 milioni di sterline. Un utile di 21,1 milioni di sterline senza imposte, mentre lo scorso anno nello stesso periodo aveva registrato perdite di 82,3 milioni di sterline. Era dal 2008 che Aston Martin non registrava utili. Certo, siamo ancora lontani dal record di 6.500 vetture vendute dieci anni fa, quando faceva ancora parte del gruppo Ford. Tuttavia, il trend si può considerare ottimo: sempre nei primi sei mesi del 2017, le vendite all’ingrosso mondiali hanno fatto registrare un incremento del 67%, per un totale di 2.439 vetture.

I mercati più floridi sono Regno Unito, Europa continentale, Americhe e Cina. Protagonista di questo successo è il modello Db11, coupé lanciata nel 2016 al salone di Ginevra. Ovviamente, il tutto non sarebbe stato possibile senza il massiccio piano di investimenti mai messo in atto. Ad ammetterlo è l ceo Andy Palmer. Andrea Bonomi ha in serbo di lanciare un nuovo modello ogni 8 mesi e di svecchiare il marchio britannico al fine di accattivarsi un pubblico più giovane. Soprattutto dei 40enni, amanti delle vetture sportive. I prossimi obiettivi sono però molto audaci: entrare nel mercato americano, fino ad oggi tiepido nei confronti di Aston Martin, e di concorrere contro la nostra Ferrari con una berlina avente motore centrale. Che Bonomi vuole lanciare entro il 2020. Per raggiungere quest’ultimo, però, bisogna considerare che Ferrari è uno dei brand più forti al mondo e che Maranello vende il doppio delle vetture vendute dal marchio britannico. La quotazione di Ferrari a Wall Street ha guadagnato più del 100% e di tutta risposta il marchio britannico pensa di arrivare in Borsa nella seconda metà dell’anno prossimo. Per ora, Bonomi vuole tornare in possesso della Ducati, di cui il colosso Volkswagen vuole disfarsi.

Aston Martin si fa ibrida entro il 2025

Ormai anche i marchi di lusso puntano al green. E così anche Aston Martin non vuole essere da meno, puntando a lanciare il primo modello elettrico entro i prossimi dodici mesi, oltre al primo Suv entro il 2019. Ma la vera svolta arriverà nel 2020, quando Aston Martin deciderà di produrre solo auto ibride. Del resto, il Regno Unito ha annunciato che vieterà la vendita di propulsori a benzina e diesel entro il 2040. E così farà anche il governo francese. Già Volvo ha annunciato di produrre solo auto ibride entro il 2019, mentre nel 2025 toccherà alla casa britannica. Ad annunciarlo al Financial Times il ceo dell’azienda britannica Andy Palmer. quest’ultimo sa bene che la questione green è sempre più sentita, più si verificano le catastrofi naturali. Quelle prevista già dagli anni ‘80 ma contro le quali abbiamo fatto poco o nulla.

Secondo una ricerca condotta dalla Business Wire, il mercato europeo delle auto elettriche salirà al 3,65 per cento sul totale entro il 2021. Siamo ancora lontani da questo traguardo, visto che attualmente siamo sotto l’un per cento, per un totale di circa 94 mila vetture vendute. Un aumento ancora limitato in termini assoluti, abbastanza almeno da rendere difficile un passaggio all’ibrido su vasta scala. Eppure, la rivoluzione dell’ibrido parte proprio da due estremi: il segmento A e quello F. Il primo relativo alle microcar e il secondo alle auto di lusso. Nel segmento A le auto ibride o full electric potrebbero raggiungere il 10 per cento del mercato entro il 2021, nel secondo il 7,5 per cento. Ma se la domanda cresce, le percentuali aumenteranno ancora. Un’altra ricerca, condotta dall’Università di Cambridge su commissione del Ministero dei trasporti inglese, ha messo in evidenza come il 54 per cento dei britannici sarebbe disposto ad acquistare un’automobile con un motore non alimentato a benzina o a gasolio.

Dati identici o quasi a quelli di uno studio condotto dall’Unione europea (55%), mentre il Center for Automotive Research dell’Università di Stanford va anche oltre: 58%. Ma se questo può essere un dato scontato, per la sensibilità ecologista di cui sopra, la vera sorpresa sono i dati riguardanti le fasce di reddito degli intervistati. Se il parere positivo per tutte le classi sociali si aggirano intorno al 50 per cento, la percentuale più elevata si è registrata proprio nella classe più abbiente: il 74 per cento si è dichiarato disposto ad acquistare una vettura ibrida o full electric, e anzi il 77 per cento tra questi lo farebbe anche subito se solo avessero a disposizione una scelta più alta. Ma è anche vero che la ricerca evidenzia anche una ragione latente. Essi ritengono l’acquisto di una auto ibrida “cool”, ossia letteralmente “figa”. Forse lo fanno per moda, per essere trandy, più che per motivi ambientalisti. Ma tant’è. La natura ringrazia uguale.

Aston Martin, presto l’arrivo in Giappone

Abbiamo detto che il marchio britannico stia crescendo esponenzialmente in Cina. Ma punta anche ad un altro Paese asiatico, insieme alla Corea del sud il più filo-occidentale: il Giappone. Nei prossimi cinque anni Bonomi intende investire 500 milioni di sterline sul mercato nipponico. Di recente, il CEO Andy Palmer ha fatto visita al Paese del Sol Levante, insieme al premier britannico Theresa May. Già l’anno prossimo inaugurerà nella capitale Tokyo una nuova sede denominata Aston Martin Meta Technology and Luxury Accelerator Office. Una denominazione lunga, con uguali lunghe prospettive: individuare nel migliore dei modi le esigenze commerciali del Giappone e aumentare la rete di vendita. Aston Martin punta così ad esportare in Giappone i suoi futuri modelli: il Suv e le auto elettriche.

Del resto, alla luce della Brexit e di un mercato con il vecchio continente che rischia di complicarsi per la Gran Bretagna, Aston Martin deve aumentare le partnership strategiche a livello internazionale. In fondo, il marchio britannico ha già rapporti consolidati con marchi come Bridgestone, Mitsubishi, Denso e Yazaki.

La storia di Aston Martin

Nascita e resurrezione

Come detto, la storia del brand britannico parte nel 1913, quando il meccanico Robert Bamford e il pilota Lionel Martin, già bene inseriti nel settore delle automobili, unificarono le proprie rispettive capacità e fondarono la “Bamford & Martin”. Inizialmente una concessionaria dove si vendevano le vetture prodotte dalla Singer, dotata altresì di una officina per effettuare le riparazioni. L’anno seguente i due soci misero a punto un prototipo da competizione mettendo insieme un motore Coventry Simplex con un telaio datato Isotta Fraschini. L’auto si mostrò anche discretamente competitiva, dato che si aggiudicò la cronoscalata Londra-Aston Clinton. Fu proprio questa prima vittoria ha dato al veicolo un nuovo nome: “Aston Martin”. Che poi sarà quello della casa automobilistica. Entusiasti della vittoria ottenuta, decisero di produrre altre auto da corsa. Ma purtroppo l’avvio della Prima guerra mondiale frenò le loro ambizioni. I due soci Martin e Bamford dovettero partecipare al conflitto, mentre il loro opificio, come capitò a tanti, fu sequestrato ed utilizzato per fini bellici.

A guerra finita, la fabbrica fu riaperta, ma dovette altresì affrontare le ristrettezze economiche del primo dopoguerra. Robert Bamford fu il primo a non crederci, abbandonando la società nel 1920, mentre, quando stava per farlo Lionel Martin, intervenne coi propri capitali il pilota Luis Vorov Zborowski. Che era in realtà un nobile franco-polacco con grandi disponibilità. Così l’azienda riprese a camminare e nel 1922 vennero presentate le prime vetture da competizione. Quelle che dovevano essere già prodotte se non fosse esploso il conflitto. Tuttavia, benché gareggiarono su piste molto prestigiose, quali Brooklands o alla 24 ore di Le Mans, le vetture non ottennero successo. Così la Aston Martin ripiombò nella crisi per quattro anni, fino a dichiarare fallimento. Con il definitivo ritiro di Lionel Martin, sotto la cui direzione la casa produsse 55 autotelai, diversamente carrozzati.

Nel 1926 la “Bamford & Martin” fu acquisita dai soci Bill Renwick e Augusto Bertelli, già proprietari della “Renwick e Bertelli”, la quale era dedita alla produzione di motori aeronautici, Ma vollero acquistare quel marchio giacché avevano messo a punto il primo propulsore automobilistico, così da poter competere in campo sportivo. L’azienda venne così rinominata “Aston Martin Limited” e trasferita a Feltham.

Le vittorie in ambito sportivo grazie…alla scaramanzia

Aston Martin fu divisa in 2 direzioni: quella commerciale assunta da Renwick, mentre quella tecnica da Bertelli. Una suddivisione non casuale, visto che quest’ultimo si era formato come progettista e pilota nel reparto corse FIAT e poi presso la Ceirano. Vi rimase per dodici anni, portando la Aston Martin ad un grande prestigio, al punto che la vettura nelle gare era più conosciuta come “Auto Bertelli”. Il primo motore progettato da Bertelli e Renwick fu subito potente e affidabile, tanto che l’auto ottenne tanti ottimi piazzamenti e una serie di vittorie di classe in gare internazionali. Si faceva notare per i rari incidenti e i pochi stop per rotture. Tuttavia, Bertelli riteneva che la mancanza di vittorie in gare importanti fosse dovuta al colore delle auto. Infatti, le Aston Martin avevano il classico colore britannico verde O.B.R.G. (acronimo di Old British Racing Green), mentre per lui, visto che il progettista e costruttore era italiano, si dovevano colorare di rosso. E così avvenne dal 1934, e incredibilmente le vetture britanniche ottennero numerose vittorie.

L’anno precedente però, la maggioranza azionaria della Aston Martin fu acquistata da Arthur Sutherland che cambiò tipo di produzione nel 1936: spostandola dalle vetture di competizione a quelle stradali in piccola serie. Poi ci fu il secondo conflitto mondiale, e le fabbriche furono nuovamente requisite a scopi bellici. Lì si finì così per produrre aeroplani.

Il dopoguerra, da Brown a Ford

Con la fine della Seconda guerra mondiale, la Aston Martin riprese la produzione e fu acquistata dall’imprenditore David Brown per 20.500 sterline, unendola l’anno successivo ad un’altra nobile decaduta inglese: la Lagonda. A partire dal 1950 iniziarono ad essere presentati i modelli che fecero la storia del marchio, contraddistinte dalle iniziali “DB”, ovviamente quelle del proprietario. I modelli che ebbero più successo a livello mondiale furono le DB4 e DB5, quest’ultima la auto ufficiale dell’agente 007 James Bond. Le lettere DB contraddistinsero i modelli fino al 1972, quando iniziò anche la serie Vantage. Ma soprattutto, Brown decise di vendere la società, percependo che era il momento giusto per farlo visto che era nel pieno delle sue potenzialità. La Aston Martin cambiò varie proprietà fino a giungere nelle mani di un marchio prestigioso: l’americana Ford.

Fino ad allora, il marchio britannico aveva sempre prodotto poche unità, dunque per un mercato di nicchia e facoltoso. Basta considerare che nel ventennio 1968-1988 aveva prodotto solo cinquemila unità. Con Ford la produzione aumentò, raggiungendo le 700 unità prodotte nel 1995 e le duemila nel 1998. Ford volle aumentare la varietà di vetture proposte, ma puntò anche molto sulla DB7, proposta in molte versioni differenti. La Aston Martin deve il proprio risollevamento economico al personaggio di James Bond. Negli anni ‘90 era in decadenza e così puntò molto sulla pubblicità nel film di James Bond Agente 007 – La morte può attendere. In questo episodio, l’agente anziché usare come da tradizione la succitata DB5, usò il modello Vanquish. Presentando prima la Vanquish e poi la DB9 (che sostituì la DB7) nel corso del 2004, il marchio tornò a spiccare il volo. Raggiungendo nel 2006 le settemila unità vendute.

Gli anni 2000, tra nuovi soci e il fedele James Bond

Nel 2004 ripartì anche l’attività sportiva della casa, interrotta da anni. Tuttavia, data la crisi di Ford, la casa americana cedette la quota di maggioranza ad una cordata di investitori guidata da Frederic Dor, John Singers e David Richards. I quali beneficiarono dei finanziamenti ottenuti principalmente dalla banca di investimento americana Jefferies, nonché da due fondi mediorientali: la Investment Dar e la Adeem Investment. Ford mantenne comunque il 12% delle quote al fine di garantire ancora la fornitura dei motori. I nuovi proprietari si sono posti come primo obiettivo proprio quello di rilanciare il marchio nelle competizioni sportive.

Nel 2007 fu lanciata la supercar su base della DB9, denominata DBS, apparsa sempre in un film di James Bond: Agente 007 – Casinò Royale. In sostituzione della Vanquish S. Ancora, al prestigioso Salone delle auto di Francoforte 2009, fu presentata la “Rapide”, una berlina sportiva a quattro porte, messa in vendita dal marzo 2010. Ancora, fu presentato un Suv di lusso, rilanciando così il marchio Lagonda, reso poi indipendente e destinato ad altri mercati. Sempre nel 2009 Aston Martin presentò la One-77, una esclusiva Gran Turismo prodotta in solo 77 esemplari e lanciati sul mercato nel 2010.

Se nel 2012 arriva come detto l’acquisto italiano da parte di Andrea Bonomi, nel 2013 arriva un altro importante passo in avanti per Aston Martin con AMG, la divisione sportiva di Mercedes-Benz. L’accordo prevede la fornitura da parte di Mercedes di motori V8 e trasmissioni progettate appositamente. Nell’accordo è anche previsto che AMG rilevi quote di Aston Martin fino al 5%.