EUR/USD scende a 1,24: ma i punti interrogativi sul cambio restano

Il cambio Euro/Dollaro continua a far parlare di sé, non conoscendo un inversione di tendenza e continuando la sua salita. Il 16 febbraio si è attestato a quota 1,24411, mentre nella giornata precedente del 15 febbraio si è appoggiato a quota 1,2450 ed ha compiuto un nuovo allungo, con le quotazioni che sono risalite fino a 1,2510. Si può dire quindi che la situazione tecnica nel breve termine sta pertanto migliorando. Il breakout della barriera posta in area 1,2520-1,2535 fornirà un nuovo segnale rialzista, con target teorici a 1,2560-1,2565 prima e attorno a 1,2590-1,2595 in un secondo momento.

Sarebbe invece da considerarsi pericolosa una discesa sotto quota 1,23. Sebbene, da un punto di vista grafico, solo il cedimento di quota 1,22 significherebbe una chiara inversione di tipo ribassista.

Ma torniamo a quanto accaduto il 16 febbraio.

Cambio EUR/USD scende su 1,14

Alla fine della mattinata di venerdì 16 febbraio, Piazza Affari, grazie a energetici e industriali, è risultata la migliore tra le borse europee. Pertanto, sembra che i dubbi riguardanti le elezioni imminenti, che preoccupano tanto l’Unione europea (tanto che il Commissario Moscovici più volte ha ribadito l’ottima collaborazione con Padoan e Gentiloni), siano passati in secondo piano.

Alle ore 13.40 faceva registrare un vantaggio di 1,12%, corrispondente a 22.746 punti, seguita a ruota da Cac 40 a 0,95%, Ftse 100 a 0,73% e Dax a 0,6%. Il dollaro da parte sua pure ha fatto registrare un timido recupero sulla moneta unica. Da parte della Fed e dell’economia americana in generale, sembrano concretizzarsi le prospettive di quattro rialzi sui tassi per il 2018. Mentre le prime ipotesi non andavano oltre le 3 strette previste. A ritenere ciò pure Keating, amministratore delegato di Werthstein Institute, società che gestisce i patrimoni, secondo il quale tale debolezza del dollaro non dovrebbe continuare ancora per molto. Del resto, lo stesso Trump a fine gennaio ha detto di volere un Dollaro forte. Parole che forse sono più di circostanza, dato che il Tycoon sembra sogghignare ad un Dollaro così timido da quando è lui l’inquilino della Casa bianca.

Il Dollaro resta un punto interrogativo

Già, a quanto pare il Dollaro americano resta un punto interrogativo. Continua a indebolirsi sull’euro, dato che come abbiamo visto, ieri la moneta unica europea è arrivata a sfondare quota 1,25. Per poi tornare verso 1,2482. In parallelo, i rendimenti dei Treasury Usa sono in fase di aumento arrivando a sfiorare il 3% con il 2,911% registrato in queste ore. Ciò, almeno per logica, avrebbe dovuto rafforzare il Dollaro. Il collegamento tra dollaro e tassi sembra infatti essere diventato inversamente proporzionale a dispetto di un cammino comune che da sempre li caratterizza.

A riprova di ciò ci pensano i numero, specie nei rapporti tra il dollaro e le altre monete. Infatti, se come detto da un lato il Dollaro tocca i minimi con l’euro dallo scorso dicembre, con lo yen arriva a 105,71, risultato toccato solo a novembre 2016. Ma a parte ciò, la moneta americana mostra una strana debolezza malgrado i dati macro continuino a dare certezze di un’economia in buona salute. E a confermare ciò sono i prezzi, la produzione industriale, il settore immobiliare e il Prodotto interno lordo.

Come si spiega questo trend? Gli analisti sono divisi su questo argomento: a parte i fattori tecnici, a frenare il Dollaro americano indicono pure altre cause: la drastica politica fiscale americana voluta da Trump e la recente presentazione del piano di investimenti nelle infrastrutture che consterebbe di circa 1.500 miliardi di dollari nell’arco di un decennio. L’incremento delle spese da un lato e il calo drastico del gettito fiscale dall’altro, potrebbe comportare gravi problemi futuri negli Usa. Andando ad aumentare una inflazione che potrebbe peggiorare ancora di più complice le pressioni protezionistiche volute da Trump che, a sprazzi, già si stanno facendo sentire con il rincaro dei dazi imposti alle lavatrici e ai pannelli solari annunciato a fine gennaio (a danno delle aziende asiatiche come Samsung Lg).

Di recente, l’agenzia di rating Moody’s ha lanciato un allarme sul debito sovrano americano, che nel corso del tempo, complici i vari programmi sopracitati, potrebbe essere assoggettata a “pressioni negative”. Tale visione sottolinea come il peso del debito pubblico, giunto a livelli di record storico, incrementato pure dall’ultimo accordo bipartisan sul tetto di spesa innalzato di oltre 300 miliardi, potrebbe diventare troppo forte pure per quella che viene ancora considerata la prima economica mondiale. In special modo in virtù di una possibile e concreta esplosione del deficit.

D’altro canto, però, l’Euro si sta sicuramente appesantendo. Pertanto, l’andazzo di Dollaro e moneta unica europea, è giunta a sollevare diversi interrogativi riguardo chi sia il vero colpevole: è l’Euro ad essere troppo forte o è il dollaro che è troppo debole?

La moneta unica europea sembra essere ancora lontana da quel livello tale da consentire al presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, di poter pensare ad un alleggerimento delle politiche di stimolo. Lo stesso Draghi ha specificato in più di una occasione che l’incremento dei tassi si verificherebbe solo dopo lo stop agli acquisti dei titoli. L’unica mossa che si può far risalire ad una qualche volontà di drenaggio è stato, finora, il taglio degli acquisti di titoli che, da gennaio 2018, sono passati dai precedenti 60 agli attuali 30 miliardi.

La situazione del cambio EUR/USD alla fine del mese di gennaio ha coinvolto pure gli analisti di Standard & Poor’s, per i quali i mercati non dovrebbero avere fretta di vedere arrivare il tapering della Bce. Le acquisizioni di titoli di Stato e di corporate bond resteranno (come i tassi bassi) ancora per diverso tempo, il che consentirà alle imprese di emettere tassi tutto sommato convenienti. A favore delle importazioni, dato che i beni costano meno, ma ovvio con una inflazione che continuerà ad abbassarsi nel tempo. Non solo, ma a dispetto di quanto avvenuto in America nell’ultimo periodo, la pressione esercitata sui salari nel vecchio continente, non pare essere così consistente.