L’Italia si prepara ad inasprire la tassazione sulle plusvalenze derivanti da Bitcoin e criptovalute.
Secondo quanto dichiarato dal Viceministro dell’Economia Maurizio Leo, nella prossima legge di bilancio (Manovra 2025) l’aliquota passerà dall’attuale 26% addirittura al 42%.
L’aumento dell’aliquota al 42% pone l’Italia tra i paesi con la tassazione più elevata sulle plusvalenze da Bitcoin, un aspetto che potrebbe influenzare le scelte di investimento e la competitività del mercato nazionale.
Un aumento drastico che rischia di penalizzare gli investitori e gli operatori del settore.
Naturalmente la norma non è stata ancora approvata, ma ha scatenato panico e preoccupazione nel settore e tra gli addetti ai lavori.
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Sommario
Cosa cambia per le tasse su Bitcoin e criptovalute
Attualmente in Italia le plusvalenze derivanti da investimenti in Bitcoin e criptovalute sono soggette ad un’imposta sostitutiva del 26% per la parte eccedente i 2.000 euro, mentre la parte al di sotto di tale soglia è esentasse.
Questo regime fiscale è stato introdotto a partire dal 2023, mentre in precedenza le criptovalute erano considerate come valuta estera, con una tassazione inferiore.
Con la prossima legge di bilancio per il 2025, stando alle dichiarazioni del Viceministro dell’Economia Maurizio Leo, l’aliquota per la tassazione delle plusvalenze crypto salirà invece al 42%, andando quindi ad abbattersi in modo molto pesante sui guadagni degli investitori.
Si tratterebbe di un aumento davvero consistente, di ben 16 punti percentuali, che porterebbe l’Italia ad avere una delle tassazioni più elevate al mondo sulle criptovalute.
Gli effetti pratici di questa stretta fiscale rischiano di essere molto negativi, sia per gli investitori sia per l’intero settore delle criptovalute nel nostro Paese.
Possibili conseguenze negative per l’Italia
Molti esperti hanno già evidenziato le possibili conseguenze negative di questa misura. In primis, il forte aumento delle tasse potrebbe spingere molti investitori a spostare i propri capitali all’estero per evitare l’eccessiva imposizione fiscale.
Inoltre, una tassazione così elevata andrebbe a colpire solamente le criptovalute, creando una disparità di trattamento rispetto ad altre forme di investimento finanziario. Gli investimenti in azioni, obbligazioni ed ETF rimarrebbero tassati al 26%.
Gli istituzionali potrebbero invece ricorrere agli strumenti regolamenti come gli ETO la cui tassazione (per ora) rimane al 26% e dunque risulterebbe più vantaggiosa.
Con questa norma sembra si voglia penalizzare la custodia personale, favorendo chi investe tramite altri canali.
Rischi per l’industria italiana delle criptovalute
L’aumento della tassazione rischia di mettere in difficoltà anche le numerose aziende italiane che operano nel settore delle criptovalute. Società di trading e exchange potrebbero decidere di trasferire la propria sede legale all’estero.
Si tratterebbe di un duro colpo per un ecosistema in rapida crescita, che potrebbe vedere migrare altrove investimenti, competenze e posti di lavoro.
Prima di procedere con simili strette fiscali punitive, sarebbe auspicabile un confronto più costruttivo con gli operatori del settore, volto a trovare una soluzione equilibrata capace di combattere l’evasione senza soffocare l’innovazione.
Una norma discutibile se confermata: il paradosso “italiano”
L’inasprimento fiscale sulle criptovalute mette in luce una certa contraddizione da parte della politica italiana. Negli anni infatti Bitcoin e le altre valute digitali sono state spesso oggetto di critiche e attacchi da parte di esponenti politici e istituzionali.
In molti casi sono state definite come “truffe”, bolle speculative prive di valore, strumenti addirittura illeciti. Eppure ora lo Stato pretende di tassare pesantemente i guadagni che derivano da questi asset, dimostrando di considerarli a tutti gli effetti investimenti finanziari fonte di plusvalenze.
Dichiarazioni sprezzanti si sono susseguite nel tempo da parte di autorevoli rappresentanti delle istituzioni. Emblematica quella del Governatore della Banca d’Italia Visco, che liquidò Bitcoin come “un veicolo estremamente volatile per frodi e riciclaggio”.
Eppure evidentemente questo non impedisce ora allo Stato di pretendere ben il 42% sui profitti di chi ha creduto nelle potenzialità di questo controverso strumento.
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